Le stelle sono spente: Floria ingessa Bowie e la Swinton in abiti e sorrisi conformi da upperclass sbiadita in gita al supermarket. Come se il vampiro di Miriam si sveglia a mezzanotte e la madre “amante perduta” di Io sono l’amore si lasciassero vivere in un’incarnazione posticcia, una casa di bambole turbata dall’arrivo di misteriosi vicini.
Stelle perse in un labirinto lynchiano dove l’ordinario brulica di presenze oscure: i roseti afferrano le inferriate dei piani alti, la cena di Eraserhead viene imbandita nella sala da pranzo di American Beauty, e scostando una tenda ci si affaccia su una dimensione parallela.
Stelle fuori di testa e fuori dal proprio corpo: re(l)azioni instabili pronte a esplodere, luci riflesse in identità alternative, che si contorcono nude sotto i letti nuziali e assaggiano le labbra in punta d’artiglio, mentre Dorian Gray e Narciso appoggiano l’orecchio alla parete ad ascoltare il cuore della notte.
Floria Sigismondi comprime l’energia per poi lasciarla esplodere e bruciare, illuminando con le proprie forme e colori l’arte del Duca Bianco.
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